domenica 15 dicembre 2013

La strada meno battuta

Cinema (di) versi

Recital di Poesia










Martedì 10 DICEMBRE 2013

ore 16:30


Questa è la copertina del recital di poesie che si è 
svolto martedì scorso presso la casa di riposo dove 
lavoro. Ci siamo preparati per questo momento per 
oltre due mesi, dalla metà di ottobre, e finalmente 
martedì siamo arrivati a questa tappa importante. 
Le mie poetesse e i mie poeti "diversamente giovani" 
si sono comportati alla grande, la lettura dei testi 
poetici è stata molto toccante e gli applausi 
non sono mancati. Il momento più emozionante 
è stato forse quello in cui ho dedicato la poesia 
La strada meno battuta alla signora Carla che aveva 
iniziato con noi il laboratorio, che leggeva la poesia 
molto bene, ma che purtroppo abbiamo dovuto 
salutare improvvisamente qualche settimana fa. 
Per lei, per salutarla di nuovo metto di seguito 
il testo del poeta americano Robert Frost, 
citato anche nel film L'Attimo fuggente.













LA STRADA MENO BATTUTA  


Divergevano due strade in un bosco ingiallito,
e spiacente di non poterle percorrere entrambe
essendo io un solo viaggiatore, a lungo mi fermai
scrutando finché potei una di esse
là dove in mezzo agli arbusti svoltava.

Poi, presi l’altra, che era buona ugualmente
e aveva forse le condizioni migliori
perché era erbosa e poco segnata;
Benché, in fondo, il passare della gente
le avesse davvero rese simili,

nessuna delle due quella mattina mostrava
sui fili d’erba l’impronta nera d’un passo.
Oh, quell'altra la tenni per un altro giorno!
Pur sapendo bene che una strada porta ad un'altra,
dubitavo se mai sarei tornato indietro.

Questa storia racconterò con un sospiro
chissà dove tra anni e anni:
due strade divergevano in un bosco, e io…..
io presi la meno battuta,
e da lì tutta la differenza è venuta.

Robert Frost


Ciao cara Carla, e grazie per i tuoi insegnamenti silenziosi: il sorriso,
la gentilezza e la disponibilità che avevi sempre con me e con tutti.

Questo era il tuo modo di prendere, ogni giorno, la strada meno battuta.


Aggiungo qui il momento de L'Attimo fuggente in cui la poesia
viene citata. Clicca qui.

sabato 7 dicembre 2013

La storia del borgo antico

                                                                                   
      

Nel borgo antico
ci si sveglia prima che il sole nasca.
Si aprono le finestre della casa grande,
il gallo canta, lontano.
La nonna prende un uovo fresco dal pollaio,
lo sbatte con lo zucchero.
E accende il fuoco per scaldare l'acqua.
Il bimbo esce con la mamma,
con le manine rosa tocca l'erba viva,
sfumata di rugiada.

Nel borgo antico
si va alla terra,
a muoverla, sollevarla, carezzarla e distruggerla
prima che il sole salga potente.
Il bimbo cresce,
vede il suo corpo mutare: ha dei peli in posti ridicoli, inimmaginabili.
E anche la voce fa su e giù nei toni, come un grammofono gracchiante.

Nel borgo antico
le donne cucinano
sognano desiderano e amano.
Parlano, con le mani immerse nell'acqua gelida del lavatoio.
Il giovane sta diventando un uomo:
quando passa le donne si voltano facendo l'occhiolino.

Nel borgo antico
le strade hanno quell'odore di sasso,
di muschio, di pane caldo.
L'uomo bello, forte, lavora tutto il giorno
e una notte si innamora.
Di quella bambina gracilina divenuta un fiore rosso di passione.

L'amore, la carne, il sudore, la paura,
le labbra bagnate,
il movimento che fluttua in potenzialità creative.
Una nuova vita in un grembo giovane
si crea in un istante: infinito.

È in un letto di una casa ruvida
nel borgo antico
che la mamma dell'uomo si spegne
accendendo in lui uno strazio ancestrale,
d'animale ferito e perso.

Nel borgo antico
il silenzio è freddo e spesso.
L'uomo se n'è andato per fuggire
dalla fiamma del dolore che cresce dentro.

Una mattina d'estate
nel borgo antico
fa ritorno un essere che ha compreso chi è.
Un uomo che ha ricucito i suoi brandelli d'anima.
E il dolore da nemico s'è fatto maestro.

Nel borgo antico
la vita ricomincia
prima che il sole salga maestoso.
L'uomo, ormai anziano,
fa sedere suo figlio sull'erba sfumata di rugiada.
E inizia a raccontare:
la storia del borgo antico.



12/08/2011


dal libro Luce nel Silenzio 


(in vendita presso la libreria Biblos di Gallarate)


© Fabio Castano

lunedì 2 dicembre 2013

I Fiumi


Seduto in un banco troppo piccolo per me, circa a metà della classe, ero in seconda o terza media: rimasi folgorato. Lessi una poesia di Ungaretti, poi ne lessi un'altra. Un'altra ancora. C'era qualcosa di speciale in quei segni scarni, in quei versi composti da pochissime parole, senza punteggiatura, senza fronzoli, che ti dicevano tanto, con quattro suoni ti dicevano tutto. C'era la semplicità: quella che tende all'infinito. Faccio risalire a quel preciso istante, nitido nella mia mente, mentre la professoressa ci diceva di aprire il libro proprio a quella pagina che mi stava aspettando, il momento in cui qualcosa si mosse, e il canale comunicativo della scrittura si risvegliò in me, diventando fondamentale. Provai a casa, qualche giorno dopo, con una penna cancellabile blu a scrivere qualcosa di incerto. La mia anima stava iniziando a esprimersi.

E questa mattina, nel laboratorio di poesia che tengo, ho letto con
Il maestoso Nilo
tutta la passione che potevo alle mie studentesse “giovani dentro” questa meraviglia che Ungaretti scrisse in una dolina carsica, in Friuli Venezia Giulia, a Cotici, vicino a San Martino del Carso.




I FIUMI


Mi tengo a quest’albero mutilato
Abbandonato in questa dolina
Che ha il languore
Di un circo
Prima o dopo lo spettacolo
E guardo
Il passaggio quieto
Delle nuvole sulla luna


Stamani mi sono disteso
In un’urna d’acqua
E come una reliquia
Ho riposato


L’Isonzo scorrendo
Mi levigava
Come un suo sasso
Ho tirato su
Le mie quattro ossa
E me ne sono andato
Come un acrobata
Sull’acqua


Mi sono accoccolato
Vicino ai miei panni
Sudici di guerra
E come un beduino
Mi sono chinato a ricevere
Il sole


Questo è l’Isonzo
E qui meglio
Mi sono riconosciuto
Una docile fibra
Dell’universo


Il mio supplizio
È quando
Non mi credo
In armonia


Ma quelle occulte
Mani
Che m’intridono
Mi regalano
La rara
Felicità


Ho ripassato
Le epoche
Della mia vita


Questi sono
I miei fiumi


Questo è il Serchio
Al quale hanno attinto
Duemil’anni forse
Di gente mia campagnola
E mio padre e mia madre.


Questo è il Nilo
Che mi ha visto
Nascere e crescere
E ardere d’inconsapevolezza
Nelle distese pianure


Questa è la Senna
E in quel suo torbido
Mi sono rimescolato
E mi sono conosciuto


Questi sono i miei fiumi
Contati nell’Isonzo


Questa è la mia nostalgia
Che in ognuno
Mi traspare
Ora ch’è notte
Che la mia vita mi pare
Una corolla
Di tenebre


Cotici il 16 agosto 1916



Il giovane soldato semplice Ungaretti, a 28 anni, fa parte delle truppe di trincee dislocate nella zona carsica intorno a Gorizia, più precisamente a San Martino del Carso. In un momento di pausa nelle operazioni militari prende il taccuino e inizia a scrivere. La mattina aveva bagnato le membra stanche e provate dalla guerra nelle acque dolci del fiume Isonzo. Quel momento di apertura e di fusione con la natura (Mi sono riconosciuto/ una docile fibra/ dell’universo) lo porta a viaggiare nei ricordi di questa sua prima parte di vita, e le acque del fiume in cui è immerso diventano quelle del Serchio, fiume toscano che scorre vicino a Lucca, città natale dei genitori del poeta. Sulla sua pelle sente le acqua del Nilo, fiume della sua infanzia (Ungaretti nacque ad Alessandria d'Egitto, suo padre era emigrato lì come operaio alla costruzione del Canale di Suez), e quelle della Senna, fiume della città a cui Ungaretti deve la sua crescita e formazione culturale. E infine di nuovo l'Isonzo, nel presente fosco della guerra così atroce e inutile. Sono sicuro che ognuno di voi potrebbe sostituire ai fiumi del poeta, tre o quattro luoghi fondamentali, tre o quattro città, tre o quattro viaggi che l'hanno cambiato e sono rimasti impressi nell'anima? Volete provare a giocare con i ricordi fino a rafforzare il momento presente?

giovedì 28 novembre 2013

Che bei capelli

                                                                                        

Persa nella malattia
di Alzheimer,
immersa in uno spazio
troppo grande,
troppo piccolo,
ti muovi
a scatti
a volte
e poi rallenti.
Sei, non sei.
In questa fusione
di ricordi
magmatici e
mobili,
mi avvicino.
Contatto i tuoi occhi.
Sento la tua mano:
calda.
Mi sorridi e mi dici
Che bei capelli”.
C'è un barlume accennato
di vita silenziosa.



La luce è più forte
quando
non te l'aspetti.



27/11/2013


© Fabio Castano

lunedì 25 novembre 2013

Il piumino del nonno

La neve scendeva in forme fluide. La cena natalizia stava per iniziare, la casa era un formicaio gioioso. Il camino
scoppiettava e lasciava uscire capriole di fumo. Nonna Nora aveva notato che l'unico a non muoversi era il piccolo Martino che, da quando aveva iniziato a nevicare, stava davanti al finestrone del salotto ad osservare lo spazio lì davanti.
«Nonna, mi serve il piumino caldo, di nonno Armando» disse Martino, avvicinandosi ai fornelli e tirandole la gonna.
«È di là sul letto, ma hai freddo?».
«No, non io».
Il bimbo sparì per un po'. La nonna sentiva i suoi passi leggeri. La porta si aprì, si chiuse, una lama di freddo entrò.
All'apertura dei regali, sotto l'albero, Nora guardò fuori dalla finestra.
C'erano i due pupazzi di neve più vicini di come li ricordava. I rami si toccavano in un abbraccio. Lì vicino un regalo. E sulle spalle avevano il piumino del nonno.

© Fabio Castano  


Guarda anche il dolcissimo spot di John Lewis. Clicca sotto.




domenica 24 novembre 2013

In questa notte d'autunno

Quando faccio il laboratorio di poesia al giovedì mattina con le mie signore “diversamente giovani” e arriviamo alla lettura del testo di Nazim Hikmet In questa notte d'autunno mi viene posta spesso, da persone diverse, la stessa domanda: “Cosa significa l'ultimo verso? Le tue parole/ erano uomini”. La bellezza della poesia sta proprio lì, nel non trovare forzatamente una risposta, ma nel sentire quale risposta può essere adatta per te, in quel momento. Tutta la poesia racconta la forza della parola, come la parola possa essere veicolo di emozioni o di espressione di ciò che siamo e vorremmo essere. E allora la parola può essere madre, amica, può essere triste o allegra. Può essere uomo, donna, bambino, può essere l'energia irradiante con cui vogliamo comunicare al mondo il nostro esistere e il nostro amare. La parola può essere consapevolezza, se indagata nel profondo: posso pronunciare la parola Mani così, come un involucro superficiale e troppo conosciuto. O, d'altro canto, con questo suono posso poggiare la mia attenzione alle mani, far trasferire lì la mia anima per un po', toccarle, coccolarle, da fuori come da dentro. E ritorno. Sentite la forza e la fragranza delle parole del poeta turco.


1948

In questa notte d'autunno
sono pieno delle tue parole
parole eterne come il tempo
come la materia
parole pesanti come la mano
scintillanti come le stelle.
Dalla tua testa dalla tua carne
dal tuo cuore
mi sono giunte le tue parole
le tue parole cariche di te
le tue parole, madre
le tue parole, amore
le tue parole, amica
Erano tristi, amare
erano allegre, piene di speranza
erano coraggiose, eroiche
le tue parole
erano uomini

N. Hikmet


Era il 1948. Hikmet era rinchiuso da dieci anni in una prigione dell'Anatolia per le sue idee politiche contrarie a quelle del governo turco. Era stato condannato a ventotto anni di carcere, ne scontò dodici, e uscì di prigione nel 1950. Scrisse questa poesia due anni prima di tornare in libertà. Il non tradire le sue parole e quello in cui credeva l'aveva privato della libertà esteriore. Ma in questo moto di resistenza, accettazione e bellezza, anche lì, dietro le sbarre, il suo cuore poteva solo volare libero nella bellezza del creato. E le parole erano ali.



La poesia è recitata da Margherita Buy in questo frammento del film Le Fate Ignoranti, del regista turco Ferzan Ozpetek. Clicca sotto.

sabato 23 novembre 2013

Un gioco

Faccio spesso un gioco                                
quando mi trovo di fronte
un anziano
raggomitolato
sulla sedia con le ruote.



Lo immagino trent'anni fa
nel suo massimo splendore
di forza e talento.



Mi tolgo anche io
trent'anni:
come avrei voluto
mi trattasse
in quell'attimo?



Ritrovo la forza,
la bellezza,
la grazia,
intatte nei suoi
occhi.
Che mi ricordano
quelli di un bimbo.



E allora apro il cuore,
scelgo parole di luce,
provo ad amare
senza freni,
senza paura.

22/11/13



© Fabio Castano  

mercoledì 20 novembre 2013

Bagliore

Forse                                                                
qualcuno
stasera
sta aspettando
un tuo sorriso,
e quel sorriso
gli cambierà
la serata.
La vita.                                 
20/11/2013

© Fabio Castano  

domenica 17 novembre 2013

Al mio cuore, di domenica

Mentre fuori dalla finestra stormi di uccelli in sincrono disegnano figure plastiche di rara bellezza e precisione, riprendo in mano La gioia di scrivere di Wislawa Szymborska, una delle più geniali e grandiose poetesse
Banksy
dell'ultimo secolo, nonché una delle mie scrittrici preferite. La gioia di scrivere è la raccolta di tutte le sue poesie dal 1945 al 2009, edito da Adelphi e curato da Pietro Marchesani. Avevo inserito in settimana una brochure che mi fa da segno a pagina 249. Szymborska è spiazzante, profondamente semplice, ti fa vedere con una spruzzata di parole un punto di vista nuovo, una realtà data per scontata ma fondamentale. In questa poesia che adoro Al mio cuore, di domenica, mette in piedi un gioco di consapevolezza giusto e illuminante: ringrazia il suo fortissimo cuore che lavora, senza sosta, anche nel giorno in cui tutti – più o meno – riposano.

Ti ringrazio, cuore mio:
non ciondoli, ti dai da fare
senza lusinghe, senza premio,
per innata diligenza.

Hai settanta meriti al minuto.
Ogni tua sistole
è come spingere una barca
in mare aperto
per un viaggio intorno al mondo.

Ti ringrazio, cuore mio:
volta per volta
mi estrai dal tutto
separata anche dal sonno.

Badi che sognando non trapassi in quel volo,
nel volo
per cui non occorrono le ali.

Ti ringrazio, cuore mio:
mi sono svegliata di nuovo
e benché sia domenica,
giorno di riposo,
sotto le costole
continua il solito viavai prefestivo.

W. Szymborska.


La poetessa polacca, premio Nobel per la letteratura nel 1996, ci apre una finestra inaspettata: non diamo mai per scontato la meraviglia armonica che siamo. Se siamo, se possiamo scoprire chi realmente siamo, separandoci momentaneamente dal tutto, lo dobbiamo alla bellezza della nostra anima, e al nostro corpo, macchina perfetta pur nella sua imperfezione. E quindi grazie cuore, grazie fegato, cari polmoni quanto vi impegnate, e tu cervello? Ti voglio bene e grazie. Fermiamoci, ringraziamo i nostri organi: ci permettono la vita e lavorano con rara bellezza e precisione, come quegli uccelli che ancora fluttuano qui fuori, nel cielo di novembre. 

venerdì 15 novembre 2013

Mi ricordi chi sono

                                                   

Raggio di sole 
che entri così forte
dalla finestra,                                                                          

scaldi la mia mano
e batti sulla tastiera con me,
ti ringrazio:
mi ricordi chi sono.


Occhi di bimbo
pieni di luce
che scrutano
il mondo
e il suo mistero profondo,
vi ringrazio:
mi ricordate chi sono.


Mela verde
con la tua polpa
fredda,
buona, buona, buona,
ti ringrazio:
mi ricordi chi sono.


Vecchietta viva,
vecchietta bella,
che leggi poesie
e rinasci ogni dì.
Ti ringrazio:
mi ricordi chi sono.


Con te c'ho litigato,
mi hai annoiato,
estenuato,
saturato.
Per questo ti ringrazio:
mi ricordi chi sono.


Foglio bianco,
spazio immenso,
penna rossa,
sempre con me.
Vi ringrazio:
mi ricordate chi sono.


E dolore,
mio gran dolore,
profondo e solo,
innescato dalla mente
che non sapeva riposare.
Ti ringrazio:
mi ricordi chi sono.


Paura, paura,
che m'hai dato l'opportunità
di affrontarti e capirti.
Ti ringrazio:
mi ricordi chi sono.


Sono tutto,
sono niente,
sono un vuoto
di parole.
Son silenzio di diamante
o suono di seta.
Sono anche io
un po' Dio.


09/11/13
© Fabio Castano

mercoledì 13 novembre 2013

La Giornata Mondiale della Gentilezza

La Giornata Mondiale della Gentilezza nasce per iniziativa del «World Kindness Movement»: la data, il 13 novembre, coincide con la giornata d'apertura della Conferenza di Tokyo del 1997 che si chiuse con la firma della «Dichiarazione della Gentilezza».
Un murales di Banksy in Pollard Street, London
Di seguito il Decalogo della Gentilezza: 1.) Abita parole preziose come "Grazie", "Scusa" e "Per Piacere", 2.) Saluta le persone che incontri in ascensore, nei negozi, sul luogo di lavoro o di studio, 3.) Sui mezzi pubblici fai sedere chi ha più difficoltà, 4.) Rispetta lo spazio pubblico come rispetti il tuo spazio privato, 5.) Fai un regalo inatteso, 6.) Cammina e pedala, spostati più che puoi senza inquinare, la città tutta ti ringrazierà, 7.) Rispetta il tempo degli altri. Sii puntuale, 8.) Regala tempo a te stesso e alle persone a cui vuoi bene, 9.) Non cedere alla prepotenza: rispondi con un sorriso a chi si mostra aggressivo, discuti in modo pacato, 10.) Spegni il cellulare quando sei con altri. Abbassa le suonerie e parla a bassa voce.


Proprio in occasione di questa stupenda ricorrenza ho scelto una poesia di Herman Hesse dolcissima, che rispecchia in pieno lo spirito della giornata. La gentilezza come presenza nei momenti difficili. L'esserci, semplicemente, senza tanti giri di parole e il darsi la mano. Non siamo più abituati a dare la mano a noi stessi e agli altri. Provate un piccolo esperimento: datevi la mano ogni tanto. Accarezzatevi la mano, qualche volta. All'inizio sembrerà strano, ma può diventare un momento di consapevolezza, di auto-coccola che può avere un grandissimo significato. Mi amo, mi coccolo, mi do la mano. E da qui, posso darla anche agli altri.

Tienimi per mano al tramonto,
quando la luce del giorno si spegne e l'oscurità fa scivolare il suo drappo di stelle...
Tienila stretta quando non riesco a viverlo questo mondo imperfetto...
Tienimi per mano... portami dove il tempo non esiste...
Tienila stretta nel difficile vivere.

Tienimi per mano... nei giorni in cui mi sento disorientata...
cantami la canzone delle stelle dolce cantilena di voci respirate...
Tienimi la mano, e stringila forte prima che l'insolente fato possa portarmi via da te...
Tienimi per mano e non lasciarmi andare... mai...

-Herman Hesse-

martedì 12 novembre 2013

Tra velluto e bottoni di madreperla

Ospito con piacere sul mio blog l'amica, giornalista e scrittrice Anna Maria Colonna. Io ho scritto per lei qualche post di viaggio sul suo bel blog Terre Nomandi (www.terrenomadi.blogspot.it) e lei oggi scrive per me di poesia. Grazie! Ecco il suo pezzo. 


Ho iniziato ad amare la letteratura tra i banchi del liceo, ascoltando il professore che leggeva «La pioggia nel pineto» di D’Annunzio e «L’Infinito» di Leopardi. Cercavo qualcosa che mi somigliasse nelle pagine di poeti e scrittori. Loro riuscivano ad esprime l’anima nei versi e nella prosa, io non riuscivo a rinunciare alla penna per dire ciò che provavo. Quando ero triste, quando la gioia mi invadeva il cuore, scrivevo. Ho scritto anche quando mi sono
Tramonto da un'Invetriata
innamorata. Per istinto, per necessità, perché non sapevo esprimermi diversamente. La voce non bastava. Succede ancora. E spesso. Risfoglio l’antologia, rileggo i componimenti e le parole sgorgano, trasformandosi in fiumi di inchiostro. Penso che nella prosa e nella poesia si incontri qualcosa di più prezioso di un’opera. È l’anima dell’uomo, il suo sentire ed il suo vivere interiore. Se le anime sono in sintonia, parole e suoni diventano l’unica chiave per accedere.
I versi di Dino Campana continuano ad accompagnare le esperienze più importanti della mia vita. Spesso le risposte che cerchi, riesci ad averle da chi non conosci. Pioveva, quel giorno. Ed il professore assegnò per casa lo studio de «L’invetriata». Ci spiegò che Campana venne rinchiuso in manicomio, dopo aver viaggiato tantissimo. E ci raccontò anche della tumultuosa e passionale storia d’amore con la scrittrice Sibilla Aleramo. Pazzo come fu ritenuto, il poeta consegnò il manoscritto dei suoi componimenti, intitolato «Il più lungo giorno», ai direttori della rivista letteraria «Lacerba», Giovanni Papini e Ardengo Soffici. La speranza era di vederlo pubblicato. Il manoscritto si perse e Campana dovette riscrivere i testi della raccolta a memoria. Alla fine, nel 1914, la pubblicò a sue spese con il titolo di «Canti orfici», vendendo le copie per strada e nei caffè.
Incuriosita dalla vita di questo scrittore e dalla determinazione con cui difendeva la sua penna, aprii il libro subito dopo pranzo per leggere «L’invetriata». E la lessi così tante volte che finii per impararla a memoria. Il componimento rapisce per le sensazioni che suscita.

La sera fumosa d’estate
Dall’alta invetriata mesce chiarori nell’ombra
E mi lascia nel cuore un suggello ardente,
Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampada) chi ha
A la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha acceso la lampada? – c’è
Nella stanza un odor di putredine: c’è
Nella stanza una piaga rossa languente.
Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto:
E tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c’è
Nel cuore della sera c’è,
Sempre una piaga rossa languente.


Al di là della critica e delle analisi testuali, resta la sensazione di serenità che trasmette il verso «le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto», il mio preferito. La sera è «fatua», leggera, evanescente. E tremola, come fosse una barchetta che danza la melodia del mare. Tremola come può tremolare la luna che si specchia nell’acqua. La «piaga rossa languente» dà l’idea di una ferita aperta, sanguinante. Ma non riesco ad associare il dolore a questa poesia. I critici vi leggono l’angoscia del poeta, io preferisco leggere tra le righe l’inquietudine dell’uomo che cerca ciò che non ha ancora trovato. Un uomo che, però, riesce a farsi abbracciare nel cuore della sera. Sotto il colore madreperlato delle stelle, tra i chiarori nell’ombra, al tramonto di un sole estivo, mentre la lampada si accende. Tutte immagini di luce. Tutte immagini di speranza.

Anna Maria Colonna

lunedì 11 novembre 2013

Che Dio ce la mandi buona!

Da questa carrozzina il mondo non è più lui. Sei come costretto a guardare tutti dal basso, tutti sanno fare, tutti ti sovrastano. E invece tu sei lì, seduto, per forza. Hai
voglia di alzarti? Grattarti? Prendere un ascensore? Fumarti una sigaretta? Non puoi, devi chiedere. Dipendi, dipendi, dipendi. Per tutto. Da quando l'ictus mi ha colpito mi sembra sei mesi fa', non ricordo bene, dopo i primi tempi sul confine sottile tra la vita e altro, sdraiato e pieno di cannette in un letto d'ospedale, mi hanno seduto qua. E bom. Ti trovi in un mondo a metà, di colpo. A 62 anni in un ospizio male odorante, pieno di novantenni che guardano nel vuoto, sbavano, urlano di notte. Avrei voglia di alzarmi, grattarmi il sedere, urlare e poi anche risedermi va bene: ma quando dico io, quando ho voglia io. E invece. Avrei voglia di prendere la macchina, con mia moglie, come ai vecchi tempi. Scegliere un ristorantino, mangiare pasta al pesce e un vinello bianco. Vorrei cambiare direzione a metà tragitto, mentre stiamo tornando a casa, non dire nulla, cibarmi con lei del silenzio raffinato. Aprire la portiera, sedermi sull'erba appena umida di rugiada. Abbracciarla. Non dire niente, sentirne il calore. E guardare le stelle, guardare le stelle appese ad un filo nel cielo. Così, semplicemente. É proprio la semplicità che in queste condizioni diventa complicata, diventa l'obiettivo: riconquistare le cose semplici”.

Rilessi queste parole tutte d'un fiato e per un attimo i pensieri complicati e intrecciati si azzittirono. Era una parte dell'intervista che avevo fatto il giorno prima al signor Alfredo, una delle tante che stavo raccogliendo per il mio progetto di Interviste Biografiche agli ospiti della struttura dove lavoro.

Ho cominciato a fare l'animatore qui dentro da quasi sei mesi e all'inizio mi sembrava l'inferno. Camminavo lentamente per i corridoi saturi di odori nauseanti, guardavo in ogni stanza, come curioso di poterci trovare cose da cui trarre un minimo di pace. La sofferenza che esce da quelle camere è immensa e si compone di noia, solitudine, perdita di speranza e dolore, dolore fisico. Non si scherza qua, c'è il dolore puro, quello vero, non quello causato dalle acrobazie viziose della nostra mente. E come il freddo totale ad un certo punto brucia, diventa quasi calore, anche il dolore forse ha una soglia assoluta in cui si trasforma in qualcos'altro: forse apatia, forse consapevolezza, forse gioia e felicità. E sì, non ci crederete ma in un posto così, lontano anni luce dallo stereotipo della nostra felicità, io c'ho visto spiragli di gioia e luce. Luce purissima.
Tra l'altro quella del signor Alfredo non era l'unica intervista che parlava di stelle, di cielo e di stelle.

A Catania, quando avevo dodici anni, uscivo con mio padre la notte, dovevo tenere pulita la barca di legno che avevamo. Era il nostro gioiellino: con quella mangiavamo tutti, io e i miei sei fratelli. Io ero il più grande e quindi l'ometto di casa. Dovevo aiutare papà. Oltre ai suoi baffoni folti e la bocca piccola che più che parlare, soffiava, quello che mi è rimasto impresso è quel cielo che non finiva. Noi sulla barchetta, un puntino in mezzo al mare, e il cielo una cupola infinita. E le stelle brillavano, brillavano, che le potevi toccare se allungavi la mano”.

Questo era Antonio per esempio, che ha 88 anni e quando è emigrato al nord piano piano, con piccoli risparmi è riuscito ad aprire una pescheria nel paese qui vicino. Mentre mi parlava gli occhi gli brillavano, un po' come le stelle di cui racconta.

O Beatrice. Sentite Beatrice. Ho sottolineato in giallo il pezzo che mi interessava.
Banksy
“Ricordo quell'aria frizzante di quando il babbo, dopo un anno di fatiche, ci portava un tre o quattro giorni in montagna. Quando arrivavamo correvo nel mio posticino, sotto l'albero secolare, vicino alla chiesetta. E guardavo le signore nuvole passare. Cercavo delle forme. Il cielo era la coperta calda per ogni dolore o tristezza che avevo”.

Quanta poesia in queste persone che ogni giorno mi ritrovo davanti. Tanta è la prosa della loro età, delle loro malattie: ma all'interno hanno poesia pura, quella che tracima dalla memoria e dell'anima.

Il cielo ritornava, le stelle sono dentro di loro. Da troppo tempo si addormentano al chiuso della loro stanzetta condivisa con uno sconosciuto, che urla tutta la notte per la paura e per l'asma che non passa. O magari sono loro stessi ad urlare per scacciare le ombre che di notte diventano più scure.
Abbiamo pensato con i colleghi di organizzare un'uscita nuova, imprevista, in realtà non consentita dalla struttura. Sul programma settimanale al posto del solito evento abbiamo messo una stella. Nessuno sospetterà, infatti sabato è il 10, San Lorenzo. Tutti penseranno a quello, non alla nostra fuga.

Porteremo delle coperte per ripararli dall'arietta estiva, li faremo uscire da una porta laterale in modo che dalla reception non ci vedano. Siamo già d'accordo con Alfredo, Antonio e Beatrice. Ci metteremo lì per un po', forse bisbiglieremo qualcosa. Forse staremo solo in attesa. In attesa che qualche stella scriva per noi un messaggio di luce nel cielo.

Ho parlato anche con la moglie del signor Alfredo, verrà anche lei a caccia di stelle, come ai vecchi tempi.

In quel momento Antonio porterà una foto di suo padre, e la sua carrozzina sarà la barca di legno in mezzo al mare di Catania.

Beatrice cercherà le nuvole a forma di fungo o drago, come nelle sue estati di bambina.

Dopo un po', anche per non far prendere loro troppo freddo, torneremo in camera. Con un bel segreto da conservare.

Spero solo che Antonio non si metta a cantare quel suo moti-
vetto che ripete quando una situazione gli piace. Se no ci beccano!

Tutto è pronto: che Dio ce la mandi buona!


© Fabio Castano  


Nota - Racconto finalista al Premio Mirella Ardy di Sestri Levante 2013.

domenica 10 novembre 2013

Se la guardi con bellezza

Capita spesso che, mentre stai cercando una cosa, ne trovi un'altra, ancora più bella, ancora più adatta a quel momento, che ti fa rivalutare anche la prima da un altro punto di vista. Così, qualche giorno fa, salgo in magazzino al lavoro per fare spazio, per permettere alle donne delle pulizie di fare il loro e, aprendo uno scatolone di cartone, mi capita in mano questo libro: Parole Sussurrate, una raccolta di aforismi, poesie, frasi di Kahlil Gibran, l'immenso autore del Profeta. I testi sono disposti a mo' di dizionario, in ordine alfabetico, per argomenti. Lo prendo, ne assaporo la fattura, subito dopo la copertina c'è un nome cancellato – doveva essere il proprietario del libro. Apro casualmente le pagine e si delinea un percorso che mi vuole dire qualcosa, che di casuale ha poco. Mi si apre la pagina dal titolo Poesia, quella dal titolo Pellegrinaggio e infine Trasfigurazione. Ci dev'essere un messaggio, inizio a leggere qualche parola di Pellegrinaggio. Gibran scrive:

Ogni seme che l'autunno sparge nella terra
ha un suo modo caratteristico
di liberare la polpa dall'involucro;
poi si creano le foglie,
e poi i fiori, e poi il frutto.
Ma indipendentemente dal modo
in cui tutto ciò avviene,
queste piante devono compiere
un solo pellegrinaggio,
e la loro grande missione è quella di ergersi
dinanzi al volto del sole.




Adoro la semplicità profonda di scrittura di questo poeta, la ricerca dell'essenzialità della parola. Scrivere poesie è un po' come scolpire, il difficile è togliere il superfluo, la forza della parola basta a se stessa. Qui ci sono parole importanti, che possono aprire mondi, e in una semplice metafora, quella del seme che rompe l'involucro, Gibran ci da una visuale sulla vita privilegiata. Mi sembra fondamentale quando l'autore scrive che ogni seme ha un modo caratteristico di rompere il suo involucro. Ci dice: io, noi, voi, siamo semi dotati di un talento unico. Dobbiamo cercare di riconoscerlo, di amarlo, di coltivarlo e infine di metterlo a frutto, di farlo sbocciare. Cosa sai fare? Cosa ami fare? Cosa amavi da bambino, quando eri così vicino alla Fonte che ti ha creato? Indipendentemente da come uno lo fa, ecco il pellegrinaggio glorioso, quello della ricerca del proprio talento, della ricerca di sé. Un pellegrinaggio che ti riporta, come da bimbo, vicino, di fronte al sole, alla bellezza che tutti ci ha creato. Rompi l'involucro della mente, dei pensieri, scopri, riscopri il tuo talento, fai parlare la tua anima. Se prendessimo un ragnetto e gli chiedessimo di costruire un palazzo sarebbe perso, avrebbe smarrito il suo talento. Lo stesso ragno, quando fa la ragnatela, trova una simmetria divina nel costruirla. Torno a poco fa, quando le pagine si sono aperte: Poesia, Pellegrinaggio, Trasfigurazione. Tutto quadra di più ora: che avventura è la vita se la guardi con bellezza.

sabato 9 novembre 2013

E VICEVERSA

Mr Brainwash

La mia ultima poesia, scritta qualche ora fa, prima di uscire. 



E viceversa


Chi oggi è alto
sarà basso, domani.
Chi oggi è ricco
sarà povero, domani.
Chi oggi è bianco
sarà nero, domani.
Chi oggi è giovane
sarà vecchio, domani.
Chi oggi ha perso
vincerà, domani.
Chi oggi ha mangiato
avrà fame, domani.
Chi oggi salta
sarà seduto, domani.
Chi oggi spinge
sarà trainato, domani.
Chi oggi ricorda
dimenticherà, domani.
Chi oggi è in prigione
sarà libero, domani.
Chi oggi è allievo
insegnerà, domani.
Chi oggi è giudice
sarà imputato, domani.
Chi oggi è re
sarà schiavo, domani.
Chi oggi urla
starà in silenzio, domani.
Chi oggi odia
amerà, domani.
Chi oggi da
avrà, domani.
Chi oggi finisce
inizierà domani.
E viceversa.
Ma chi ha Dio
ha tutto
l'infinito che occorre,
oggi.

08/11/13

© Fabio Castano

giovedì 7 novembre 2013

La Poesia, come i sogni, non ha età

Nei loro occhi vedo frammenti di bellezza rinata. Leggono le poesie e si immergono nelle parole che fluiscono come da un torrente che a
Mr Brainwash - Cuore di barattoli di vernice
tratti accelera, e subito dopo rallenta. Questa visione si ripete ormai da tre giovedì consecutivi, la mattina, quando tengo alle mie “vecchiette” nella casa di riposo dove lavoro un laboratorio di poesia. Stiamo preparando un recital che si svolgerà il 10 dicembre. Il tema che abbiamo scelto è “Cinema Di-Versi”, le poesie che vengono citate nei film. E allora ci siamo immersi nelle metafore feconde del Neruda del Postino, con Massimo Troisi, abbiamo preso a prestito da L'Attimo Fuggente il mitico Oh Capitano! Mio Capitano di Walt Withman (vedi link sotto, da brividi!) e La strada meno battuta del poeta americano Robert Frost. Abbiamo preso da Patch Adams il Sonetto XVII, sempre di Neruda, che Patch-Robin Williams legge davanti alla bara della compagna sussurrandole di un amore tanto incondizionato, quanto totale, che ha nei versi “T'amo senza sapere come, né quando, né da dove,/ t'amo direttamente senza problemi né orgoglio:/ così ti amo perché non so amare altrimenti/, delle vibrazioni profonde e pure che fanno risuonare direttamente l'anima di chi le prende in prestito e le recita. È una stupenda sensazione vedere queste signore e anche un paio di ometti mettersi in gioco, emozionarsi, provare ad entrare nel testo per sentire qualcosa e migliorarsi di lettura in lettura. Credo che il vero momento poetico nasca lì, così come un grandissimo insegnamento: se il cuore è caldo, se la voglia di scoprire e ricercare rimane intatta, ad ogni età si può essere giovani,
tanto da farsi sommergere dalla bellezza delle parole poetiche.

Un'altra delle poesie scelte per il recital è di Totò, questa:


Core analfabbeta

Stu core analfabbeta
tu ll'he purtato a scola,
e s'è mparato a scrivere,
e s'è mparato a lleggere
sultanto na parola:
"Ammore" e niente cchiù.