Un vecchiaccio cattivo,
grinzoso, coi baffi all'ingiù e la barba a
chiazze, incolta. Era
visto più o meno così, Onofrio, in paese. Un lupo solitario, un
orso, che non usciva mai dalla sua tana. Un essere carico di
sofferenze che, per non sentirle, aveva alzato intorno a sé muri: si
voleva difendere dal mondo. Nessuno lo conosceva bene. La gente si
era fatta un'idea di lui attraverso fotogrammi, frammenti di vita,
come quando lo vedevano uscire tutto cencioso per andare al cimitero
dai suoi genitori e dalla povera moglie, Isabella.
Un giorno un gruppo di
bambini si avvicinò al suo giardino per giocare a palla. Era
primavera, il sole splendeva, gli schiamazzi volavano come suoni
colorati. E il pallone finì dentro, da Onofrio. I ragazzi provarono
a guardare oltre il muro. Si arrampicarono, ma niente. Troppo alto.
Dopo pochi minuti si udì un fruscio, come di un gatto. Il pallone
saltò fuori lacerato in mille fendenti.
“Andate via,
delinquenti, non fatevi più vedere” guaì Onofrio dall'interno. I
ragazzi non si avvicinarono mai più da quelle parti.
O quella volta, quando
passò il postino. Non lo conosceva ancora bene. “Buongiorno signor
De Pretis, c'è posta per lei” disse sorridendo lo sconsiderato. E
di ritorno: “Lascia tutto nella cassetta e porta via quel tuo
brutto muso da qui!”.
Intorno alla casa di
Onofrio c'era gelo, silenzio, isolamento. D'inverno, se in paese
metteva venti centimetri di neve, da lui stai sicuro ce n'era un
metro. D'estate, se in paese c'era il sole battente, stai sicuro che
una nuvola o un acquazzone portavano pioggia sulla sua casa.
Le notti di Onofrio erano
infestate da incubi appuntiti. Si svegliava, si svegliava sempre. E
puntualmente, alla stessa ora, verso le 3:40, faceva l'unica cosa al
mondo che sapeva tenerlo tranquillo. Si puliva la bava ai lati della
bocca. Infilava le ciabatte, a volte le invertiva. Scendeva le scale
e toccava la chiave che teneva al collo per sapere se c'era ancora.
Entrava in cortile, si avvicinava ad una porta in legno, nascosta
dall'edera, e apriva. Lì sentiva un refolo di pace, una frescura di
silenzio: nel suo giardino di rose. Le curava con attenzione, parlava
alle rose, le bagnava, il suo corpo sembrava diventare più
flessibile in quello spazio nascosto, si muoveva tra la bellezza dei
colori come un ballerino sinuoso, la sua rigidità spariva, era a
casa. Lì, da solo, per pochi istanti, si sentiva a casa.
La magia del giardino di
rose finiva in fretta. Onofrio resisteva alla bellezza solo pochi
minuti. Quasi come un ladro che veniva scoperto si scrollava di dosso
quei momenti, chiudeva tutto, e se ne tornava a letto di fretta, con
i suoi incubi che lo attendevano impazienti.
La vita di Onofrio
proseguiva così: un fiume paludoso grigio-verde, che ogni tanto nel
suo scorrere incontra un intoppo e ha bisogno di accelerare, di
buttar fuori la rabbia sul primo che passa.
Una notte, quella notte,
Onofrio si alzò sudato, in preda a sogni tremendi. Si asciugò la
bava, mise le ciabatte al contrario e scese le scale, in un
automatismo perfetto. Erano le 3:40. Toccò la chiave che teneva a
tracolla, sul petto. C'era: tutto bene. Avanzò in giardino, percorse
il vialetto, alzò gli occhi. Il portone di legno era per metà
aperto. Già aperto. Impossibile. Un brivido gelato gli percorse la
spina dorsale. I ladri. Corse in casa, prese un badile, si posizionò
vicino alla porta. E guardò dentro. Non c'era più nessuno, buio.
Entrò piano e vide qualcosa di insolito. Chi era stato lì si era
limitato a strappare una rosa, una delle più belle; Onofrio se ne
accorse subito, le conosceva a memoria. Nient'altro era stato
toccato.
La situazione si ripeté
ogni notte per tutta la settimana: Onofrio arrivava al giardino e
qualcuno era stato lì, aveva strappato una nuova rosa e se n'era
andato.
L'ottava notte Onofrio
decise di restare sveglio, voleva capire chi erano i suoi visitatori.
Appena sentì dei passi, lo scricchiolio del portone che si apriva,
uscì lentamente e vide una scena strana, inconcepibile.
Nel giardino c'era un uomo
vecchio, sporco, abbastanza curvo, teneva in mano una forbice con cui
stava per recidere la rosa. Nell'altra mano aveva un filo a cui
teneva legato un bimbo, apparentemente cieco: muoveva un piccolo
bastone bianco.
Onofrio, vista quella
scena tremenda, si fece prendere dalla rabbia ed entrò nel roseto
brandendo il badile.
“Chi diavolo sei?! Un
ladro?! Non ti vergogni di trattare così quel povero bambino?”
disse sbraitando, con gli occhi rossi.
“Oh caro Onofrio, ti
aspettavamo” disse l'anziano girandosi a fatica, e proseguì “hai
fatto una bellissima domanda, che però dovresti rivolgere a te
stesso”.
“Ladro! Chi sei? Chi sei
per parlarmi così? Non ti permettere!”.
“Sono un ladro sì, un
ladro di bellezza” spiegò lentamente l'uomo. “Sono la tua anima
invecchiata che tiene in catene il bambino dentro di te, lo rende
cieco alla bellezza che ha intorno”.
“E le rose? Perché si
ostina a tagliare le mie rose?” chiese tremante Onofrio.
“Le rose sono l'Adesso
che perdi, sono i rapporti che ogni giorno tu recidi. Io di notte
faccio solo quello che tu ti ostini a fare di giorno”.
Onofrio, quasi di scatto,
prese al vecchio la forbice e tagliò il laccio scuro che teneva
bloccato il bambino. In un istante fermo, una luce particolare tornò
al fanciullo negli occhi, che prima erano completamente bianchi.
“Vai” gli disse
Onofrio “vai, libero”.
“Così sia” fece eco
il vecchio.
“Tieni” disse il bimbo
ad Onofrio, “è per te”.
La mattina seguente
Onofrio si svegliò nel letto, tutto infreddolito e sporco di terra.
Aveva qualcosa nella mano: un seme. Andò in bagno, si rasò la barba
trasandata, pettinò la punta dei baffi leggermente all'insù e mise
un bell'abito colorato. Corse giù in giardino, aprì la porta di
legno e vide che le rose c'erano tutte, splendenti, bellissime. Quasi
commosso, vicino alle rose, piantò con molta cura il suo nuovo seme.
Fu in quel momento che il postino suonò con discrezione alla porta.
“Signor De Pretis, scusi
il disturbo, me ne vado subito, c'è una raccomandata per lei”.
“Che piacere vederla,
Claudio! Ha tempo di prendere un bicchierino con me o è troppo di
fretta per la consegna delle lettere? Mi piacerebbe farle vedere il
mio roseto, lo curavo sempre con mia moglie, c'è anche dell'ombra se
vuole riposarsi cinque minuti” disse Onofrio e in quel momento
sorrise. Con uno di quei sorrisi che si apre dopo tanto. Come la rosa
più preziosa.
©
Fabio Castano
Novella vincitrice della II edizione del Concorso letterario Mirella Ardy di Sestri Levante.