lunedì 2 dicembre 2013

I Fiumi


Seduto in un banco troppo piccolo per me, circa a metà della classe, ero in seconda o terza media: rimasi folgorato. Lessi una poesia di Ungaretti, poi ne lessi un'altra. Un'altra ancora. C'era qualcosa di speciale in quei segni scarni, in quei versi composti da pochissime parole, senza punteggiatura, senza fronzoli, che ti dicevano tanto, con quattro suoni ti dicevano tutto. C'era la semplicità: quella che tende all'infinito. Faccio risalire a quel preciso istante, nitido nella mia mente, mentre la professoressa ci diceva di aprire il libro proprio a quella pagina che mi stava aspettando, il momento in cui qualcosa si mosse, e il canale comunicativo della scrittura si risvegliò in me, diventando fondamentale. Provai a casa, qualche giorno dopo, con una penna cancellabile blu a scrivere qualcosa di incerto. La mia anima stava iniziando a esprimersi.

E questa mattina, nel laboratorio di poesia che tengo, ho letto con
Il maestoso Nilo
tutta la passione che potevo alle mie studentesse “giovani dentro” questa meraviglia che Ungaretti scrisse in una dolina carsica, in Friuli Venezia Giulia, a Cotici, vicino a San Martino del Carso.




I FIUMI


Mi tengo a quest’albero mutilato
Abbandonato in questa dolina
Che ha il languore
Di un circo
Prima o dopo lo spettacolo
E guardo
Il passaggio quieto
Delle nuvole sulla luna


Stamani mi sono disteso
In un’urna d’acqua
E come una reliquia
Ho riposato


L’Isonzo scorrendo
Mi levigava
Come un suo sasso
Ho tirato su
Le mie quattro ossa
E me ne sono andato
Come un acrobata
Sull’acqua


Mi sono accoccolato
Vicino ai miei panni
Sudici di guerra
E come un beduino
Mi sono chinato a ricevere
Il sole


Questo è l’Isonzo
E qui meglio
Mi sono riconosciuto
Una docile fibra
Dell’universo


Il mio supplizio
È quando
Non mi credo
In armonia


Ma quelle occulte
Mani
Che m’intridono
Mi regalano
La rara
Felicità


Ho ripassato
Le epoche
Della mia vita


Questi sono
I miei fiumi


Questo è il Serchio
Al quale hanno attinto
Duemil’anni forse
Di gente mia campagnola
E mio padre e mia madre.


Questo è il Nilo
Che mi ha visto
Nascere e crescere
E ardere d’inconsapevolezza
Nelle distese pianure


Questa è la Senna
E in quel suo torbido
Mi sono rimescolato
E mi sono conosciuto


Questi sono i miei fiumi
Contati nell’Isonzo


Questa è la mia nostalgia
Che in ognuno
Mi traspare
Ora ch’è notte
Che la mia vita mi pare
Una corolla
Di tenebre


Cotici il 16 agosto 1916



Il giovane soldato semplice Ungaretti, a 28 anni, fa parte delle truppe di trincee dislocate nella zona carsica intorno a Gorizia, più precisamente a San Martino del Carso. In un momento di pausa nelle operazioni militari prende il taccuino e inizia a scrivere. La mattina aveva bagnato le membra stanche e provate dalla guerra nelle acque dolci del fiume Isonzo. Quel momento di apertura e di fusione con la natura (Mi sono riconosciuto/ una docile fibra/ dell’universo) lo porta a viaggiare nei ricordi di questa sua prima parte di vita, e le acque del fiume in cui è immerso diventano quelle del Serchio, fiume toscano che scorre vicino a Lucca, città natale dei genitori del poeta. Sulla sua pelle sente le acqua del Nilo, fiume della sua infanzia (Ungaretti nacque ad Alessandria d'Egitto, suo padre era emigrato lì come operaio alla costruzione del Canale di Suez), e quelle della Senna, fiume della città a cui Ungaretti deve la sua crescita e formazione culturale. E infine di nuovo l'Isonzo, nel presente fosco della guerra così atroce e inutile. Sono sicuro che ognuno di voi potrebbe sostituire ai fiumi del poeta, tre o quattro luoghi fondamentali, tre o quattro città, tre o quattro viaggi che l'hanno cambiato e sono rimasti impressi nell'anima? Volete provare a giocare con i ricordi fino a rafforzare il momento presente?

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