“Da
questa carrozzina il mondo non è più lui. Sei come costretto a
guardare tutti dal basso, tutti sanno fare, tutti ti sovrastano. E
invece tu sei lì, seduto, per forza. Hai
voglia di alzarti?
Grattarti? Prendere un ascensore? Fumarti una sigaretta? Non puoi,
devi chiedere. Dipendi, dipendi, dipendi. Per tutto. Da quando
l'ictus mi ha colpito mi sembra sei mesi fa', non ricordo bene, dopo
i primi tempi sul confine sottile tra la vita e altro, sdraiato e
pieno di cannette in un letto d'ospedale, mi hanno seduto qua. E bom.
Ti trovi in un mondo a metà, di colpo. A 62 anni in un ospizio male
odorante, pieno di novantenni che guardano nel vuoto, sbavano, urlano
di notte. Avrei voglia di alzarmi, grattarmi il sedere, urlare e poi
anche risedermi va bene: ma quando dico io, quando ho voglia io. E
invece. Avrei voglia di prendere la macchina, con mia moglie, come ai
vecchi tempi. Scegliere un ristorantino, mangiare pasta al pesce e un
vinello bianco. Vorrei cambiare direzione a metà tragitto, mentre
stiamo tornando a casa, non dire nulla, cibarmi con lei del silenzio
raffinato. Aprire la portiera, sedermi sull'erba appena umida di
rugiada. Abbracciarla. Non dire niente, sentirne il calore. E
guardare le stelle, guardare le stelle appese ad un filo nel cielo.
Così, semplicemente. É proprio la semplicità che in queste
condizioni diventa complicata, diventa l'obiettivo: riconquistare le
cose semplici”.
Rilessi
queste parole tutte d'un fiato e per un attimo i pensieri complicati
e intrecciati si azzittirono. Era una parte dell'intervista che avevo
fatto il giorno prima al signor Alfredo, una delle tante che stavo
raccogliendo per il mio progetto di Interviste Biografiche agli
ospiti della struttura dove lavoro.
Ho
cominciato a fare l'animatore qui dentro da quasi sei mesi e
all'inizio mi sembrava l'inferno. Camminavo lentamente per i corridoi
saturi di odori nauseanti, guardavo in ogni stanza, come curioso di
poterci trovare cose da cui trarre un minimo di pace. La sofferenza
che esce da quelle camere è immensa e si compone di noia,
solitudine, perdita di speranza e dolore, dolore fisico. Non si
scherza qua, c'è il dolore puro, quello vero, non quello causato
dalle acrobazie viziose della nostra mente. E come il freddo totale
ad un certo punto brucia, diventa quasi calore, anche il dolore forse
ha una soglia assoluta in cui si trasforma in qualcos'altro: forse
apatia, forse consapevolezza, forse gioia e felicità. E sì, non ci
crederete ma in un posto così, lontano anni luce dallo stereotipo
della nostra felicità, io c'ho visto spiragli di gioia e luce. Luce
purissima.
Tra
l'altro quella del signor Alfredo non era l'unica intervista che
parlava di stelle, di cielo e di stelle.
“A
Catania, quando avevo dodici anni, uscivo con mio padre la notte,
dovevo tenere pulita la barca di legno che avevamo. Era il nostro
gioiellino: con quella mangiavamo tutti, io e i miei sei fratelli. Io
ero il più grande e quindi l'ometto di casa. Dovevo aiutare papà.
Oltre ai suoi baffoni folti e la bocca piccola che più che parlare,
soffiava, quello che mi è rimasto impresso è quel cielo che non
finiva. Noi sulla barchetta, un puntino in mezzo al mare, e il cielo
una cupola infinita. E le stelle brillavano, brillavano, che le
potevi toccare se allungavi la mano”.
Questo
era Antonio per esempio, che ha 88 anni e quando è emigrato al nord
piano piano, con piccoli risparmi è riuscito ad aprire una pescheria
nel paese qui vicino. Mentre mi parlava gli occhi gli brillavano, un
po' come le stelle di cui racconta.
O
Beatrice. Sentite Beatrice. Ho sottolineato in giallo il pezzo che mi
interessava.
“Ricordo quell'aria frizzante di quando il babbo, dopo
un anno di fatiche, ci portava un tre o quattro giorni in montagna.
Quando arrivavamo correvo nel mio posticino, sotto l'albero secolare,
vicino alla chiesetta. E guardavo le signore nuvole passare. Cercavo
delle forme. Il cielo era la coperta calda per ogni dolore o
tristezza che avevo”.
Banksy |
Quanta
poesia in queste persone che ogni giorno mi ritrovo davanti. Tanta è
la prosa della loro età, delle loro malattie: ma all'interno hanno
poesia pura, quella che tracima dalla memoria e dell'anima.
Il
cielo ritornava, le stelle sono dentro di loro. Da troppo tempo si
addormentano al chiuso della loro stanzetta condivisa con uno
sconosciuto, che urla tutta la notte per la paura e per l'asma che
non passa. O magari sono loro stessi ad urlare per scacciare le ombre
che di notte diventano più scure.
Abbiamo
pensato con i colleghi di organizzare un'uscita nuova, imprevista, in
realtà non consentita dalla struttura. Sul programma settimanale al
posto del solito evento abbiamo messo una stella. Nessuno sospetterà,
infatti sabato è il 10, San Lorenzo. Tutti penseranno a quello, non
alla nostra fuga.
Porteremo
delle coperte per ripararli dall'arietta estiva, li faremo uscire da
una porta laterale in modo che dalla reception non ci vedano. Siamo
già d'accordo con Alfredo, Antonio e Beatrice. Ci metteremo lì per
un po', forse bisbiglieremo qualcosa. Forse staremo solo in attesa.
In attesa che qualche stella scriva per noi un messaggio di luce nel
cielo.
Ho
parlato anche con la moglie del signor Alfredo, verrà anche lei a
caccia di stelle, come ai vecchi tempi.
In
quel momento Antonio porterà una foto di suo padre, e la sua
carrozzina sarà la barca di legno in mezzo al mare di Catania.
Beatrice
cercherà le nuvole a forma di fungo o drago, come nelle sue estati
di bambina.
Dopo
un po', anche per non far prendere loro troppo freddo, torneremo in
camera. Con un bel segreto da conservare.
Spero
solo che Antonio non si metta a cantare quel suo moti-
vetto che ripete
quando una situazione gli piace. Se no ci beccano!
Tutto
è pronto: che Dio ce la mandi buona!
©
Fabio Castano
Nota - Racconto finalista al Premio Mirella Ardy di Sestri Levante 2013.
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