Ospito con piacere sul mio blog l'amica, giornalista e scrittrice Anna Maria Colonna. Io ho scritto per lei qualche post di viaggio sul suo bel blog Terre Nomandi (www.terrenomadi.blogspot.it) e lei oggi scrive per me di poesia. Grazie! Ecco il suo pezzo.
Ho iniziato ad amare la letteratura tra
i banchi del liceo, ascoltando il professore che leggeva «La pioggia
nel pineto» di D’Annunzio e «L’Infinito» di Leopardi. Cercavo
qualcosa che mi somigliasse nelle pagine di poeti e scrittori. Loro
riuscivano ad esprime l’anima nei versi e nella prosa, io non
riuscivo a rinunciare alla penna per dire ciò che provavo. Quando
ero triste, quando la gioia mi invadeva il cuore, scrivevo. Ho
scritto anche quando mi sono
innamorata. Per istinto, per necessità,
perché non sapevo esprimermi diversamente. La voce non bastava.
Succede ancora. E spesso. Risfoglio l’antologia, rileggo i
componimenti e le parole sgorgano, trasformandosi in fiumi di
inchiostro. Penso che nella prosa e nella poesia si incontri qualcosa
di più prezioso di un’opera. È l’anima dell’uomo, il suo
sentire ed il suo vivere interiore. Se le anime sono in sintonia,
parole e suoni diventano l’unica chiave per accedere.
Tramonto da un'Invetriata |
I versi di Dino Campana continuano ad
accompagnare le esperienze più importanti della mia vita. Spesso le
risposte che cerchi, riesci ad averle da chi non conosci. Pioveva,
quel giorno. Ed il professore assegnò per casa lo studio de
«L’invetriata». Ci spiegò che Campana venne rinchiuso in
manicomio, dopo aver viaggiato tantissimo. E ci raccontò anche della
tumultuosa e passionale storia d’amore con la scrittrice Sibilla
Aleramo. Pazzo come fu ritenuto, il poeta consegnò il manoscritto
dei suoi componimenti, intitolato «Il più lungo giorno», ai
direttori della rivista letteraria «Lacerba», Giovanni Papini e
Ardengo Soffici. La speranza era di vederlo pubblicato. Il
manoscritto si perse e Campana dovette riscrivere i testi della
raccolta a memoria. Alla fine, nel 1914, la pubblicò a sue spese con
il titolo di «Canti orfici», vendendo le copie per strada e nei
caffè.
Incuriosita dalla vita di questo
scrittore e dalla determinazione con cui difendeva la sua penna,
aprii il libro subito dopo pranzo per leggere «L’invetriata». E
la lessi così tante volte che finii per impararla a memoria. Il
componimento rapisce per le sensazioni che suscita.
La sera fumosa d’estate
Dall’alta invetriata mesce
chiarori nell’ombra
E mi lascia nel cuore un suggello
ardente,
Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si
accende una lampada) chi ha
A la Madonnina del Ponte chi è chi
è che ha acceso la lampada? – c’è
Nella stanza un odor di putredine:
c’è
Nella stanza una piaga rossa
languente.
Le stelle sono bottoni di madreperla
e la sera si veste di velluto:
E tremola la sera fatua: è fatua la
sera e tremola ma c’è
Nel cuore della sera c’è,
Sempre una piaga rossa languente.
Al di là della critica e delle analisi
testuali, resta la sensazione di serenità che trasmette il verso «le
stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto», il
mio preferito. La sera è «fatua», leggera, evanescente. E tremola,
come fosse una barchetta che danza la melodia del mare. Tremola come
può tremolare la luna che si specchia nell’acqua. La «piaga rossa
languente» dà l’idea di una ferita aperta, sanguinante. Ma non
riesco ad associare il dolore a questa poesia. I critici vi leggono
l’angoscia del poeta, io preferisco leggere tra le righe
l’inquietudine dell’uomo che cerca ciò che non ha ancora
trovato. Un uomo che, però, riesce a farsi abbracciare nel cuore
della sera. Sotto il colore madreperlato delle stelle, tra i chiarori
nell’ombra, al tramonto di un sole estivo, mentre la lampada si
accende. Tutte immagini di luce. Tutte immagini di speranza.
Anna Maria Colonna
Nessun commento:
Posta un commento