lunedì 11 novembre 2013

Che Dio ce la mandi buona!

Da questa carrozzina il mondo non è più lui. Sei come costretto a guardare tutti dal basso, tutti sanno fare, tutti ti sovrastano. E invece tu sei lì, seduto, per forza. Hai
voglia di alzarti? Grattarti? Prendere un ascensore? Fumarti una sigaretta? Non puoi, devi chiedere. Dipendi, dipendi, dipendi. Per tutto. Da quando l'ictus mi ha colpito mi sembra sei mesi fa', non ricordo bene, dopo i primi tempi sul confine sottile tra la vita e altro, sdraiato e pieno di cannette in un letto d'ospedale, mi hanno seduto qua. E bom. Ti trovi in un mondo a metà, di colpo. A 62 anni in un ospizio male odorante, pieno di novantenni che guardano nel vuoto, sbavano, urlano di notte. Avrei voglia di alzarmi, grattarmi il sedere, urlare e poi anche risedermi va bene: ma quando dico io, quando ho voglia io. E invece. Avrei voglia di prendere la macchina, con mia moglie, come ai vecchi tempi. Scegliere un ristorantino, mangiare pasta al pesce e un vinello bianco. Vorrei cambiare direzione a metà tragitto, mentre stiamo tornando a casa, non dire nulla, cibarmi con lei del silenzio raffinato. Aprire la portiera, sedermi sull'erba appena umida di rugiada. Abbracciarla. Non dire niente, sentirne il calore. E guardare le stelle, guardare le stelle appese ad un filo nel cielo. Così, semplicemente. É proprio la semplicità che in queste condizioni diventa complicata, diventa l'obiettivo: riconquistare le cose semplici”.

Rilessi queste parole tutte d'un fiato e per un attimo i pensieri complicati e intrecciati si azzittirono. Era una parte dell'intervista che avevo fatto il giorno prima al signor Alfredo, una delle tante che stavo raccogliendo per il mio progetto di Interviste Biografiche agli ospiti della struttura dove lavoro.

Ho cominciato a fare l'animatore qui dentro da quasi sei mesi e all'inizio mi sembrava l'inferno. Camminavo lentamente per i corridoi saturi di odori nauseanti, guardavo in ogni stanza, come curioso di poterci trovare cose da cui trarre un minimo di pace. La sofferenza che esce da quelle camere è immensa e si compone di noia, solitudine, perdita di speranza e dolore, dolore fisico. Non si scherza qua, c'è il dolore puro, quello vero, non quello causato dalle acrobazie viziose della nostra mente. E come il freddo totale ad un certo punto brucia, diventa quasi calore, anche il dolore forse ha una soglia assoluta in cui si trasforma in qualcos'altro: forse apatia, forse consapevolezza, forse gioia e felicità. E sì, non ci crederete ma in un posto così, lontano anni luce dallo stereotipo della nostra felicità, io c'ho visto spiragli di gioia e luce. Luce purissima.
Tra l'altro quella del signor Alfredo non era l'unica intervista che parlava di stelle, di cielo e di stelle.

A Catania, quando avevo dodici anni, uscivo con mio padre la notte, dovevo tenere pulita la barca di legno che avevamo. Era il nostro gioiellino: con quella mangiavamo tutti, io e i miei sei fratelli. Io ero il più grande e quindi l'ometto di casa. Dovevo aiutare papà. Oltre ai suoi baffoni folti e la bocca piccola che più che parlare, soffiava, quello che mi è rimasto impresso è quel cielo che non finiva. Noi sulla barchetta, un puntino in mezzo al mare, e il cielo una cupola infinita. E le stelle brillavano, brillavano, che le potevi toccare se allungavi la mano”.

Questo era Antonio per esempio, che ha 88 anni e quando è emigrato al nord piano piano, con piccoli risparmi è riuscito ad aprire una pescheria nel paese qui vicino. Mentre mi parlava gli occhi gli brillavano, un po' come le stelle di cui racconta.

O Beatrice. Sentite Beatrice. Ho sottolineato in giallo il pezzo che mi interessava.
Banksy
“Ricordo quell'aria frizzante di quando il babbo, dopo un anno di fatiche, ci portava un tre o quattro giorni in montagna. Quando arrivavamo correvo nel mio posticino, sotto l'albero secolare, vicino alla chiesetta. E guardavo le signore nuvole passare. Cercavo delle forme. Il cielo era la coperta calda per ogni dolore o tristezza che avevo”.

Quanta poesia in queste persone che ogni giorno mi ritrovo davanti. Tanta è la prosa della loro età, delle loro malattie: ma all'interno hanno poesia pura, quella che tracima dalla memoria e dell'anima.

Il cielo ritornava, le stelle sono dentro di loro. Da troppo tempo si addormentano al chiuso della loro stanzetta condivisa con uno sconosciuto, che urla tutta la notte per la paura e per l'asma che non passa. O magari sono loro stessi ad urlare per scacciare le ombre che di notte diventano più scure.
Abbiamo pensato con i colleghi di organizzare un'uscita nuova, imprevista, in realtà non consentita dalla struttura. Sul programma settimanale al posto del solito evento abbiamo messo una stella. Nessuno sospetterà, infatti sabato è il 10, San Lorenzo. Tutti penseranno a quello, non alla nostra fuga.

Porteremo delle coperte per ripararli dall'arietta estiva, li faremo uscire da una porta laterale in modo che dalla reception non ci vedano. Siamo già d'accordo con Alfredo, Antonio e Beatrice. Ci metteremo lì per un po', forse bisbiglieremo qualcosa. Forse staremo solo in attesa. In attesa che qualche stella scriva per noi un messaggio di luce nel cielo.

Ho parlato anche con la moglie del signor Alfredo, verrà anche lei a caccia di stelle, come ai vecchi tempi.

In quel momento Antonio porterà una foto di suo padre, e la sua carrozzina sarà la barca di legno in mezzo al mare di Catania.

Beatrice cercherà le nuvole a forma di fungo o drago, come nelle sue estati di bambina.

Dopo un po', anche per non far prendere loro troppo freddo, torneremo in camera. Con un bel segreto da conservare.

Spero solo che Antonio non si metta a cantare quel suo moti-
vetto che ripete quando una situazione gli piace. Se no ci beccano!

Tutto è pronto: che Dio ce la mandi buona!


© Fabio Castano  


Nota - Racconto finalista al Premio Mirella Ardy di Sestri Levante 2013.

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