martedì 12 novembre 2013

Tra velluto e bottoni di madreperla

Ospito con piacere sul mio blog l'amica, giornalista e scrittrice Anna Maria Colonna. Io ho scritto per lei qualche post di viaggio sul suo bel blog Terre Nomandi (www.terrenomadi.blogspot.it) e lei oggi scrive per me di poesia. Grazie! Ecco il suo pezzo. 


Ho iniziato ad amare la letteratura tra i banchi del liceo, ascoltando il professore che leggeva «La pioggia nel pineto» di D’Annunzio e «L’Infinito» di Leopardi. Cercavo qualcosa che mi somigliasse nelle pagine di poeti e scrittori. Loro riuscivano ad esprime l’anima nei versi e nella prosa, io non riuscivo a rinunciare alla penna per dire ciò che provavo. Quando ero triste, quando la gioia mi invadeva il cuore, scrivevo. Ho scritto anche quando mi sono
Tramonto da un'Invetriata
innamorata. Per istinto, per necessità, perché non sapevo esprimermi diversamente. La voce non bastava. Succede ancora. E spesso. Risfoglio l’antologia, rileggo i componimenti e le parole sgorgano, trasformandosi in fiumi di inchiostro. Penso che nella prosa e nella poesia si incontri qualcosa di più prezioso di un’opera. È l’anima dell’uomo, il suo sentire ed il suo vivere interiore. Se le anime sono in sintonia, parole e suoni diventano l’unica chiave per accedere.
I versi di Dino Campana continuano ad accompagnare le esperienze più importanti della mia vita. Spesso le risposte che cerchi, riesci ad averle da chi non conosci. Pioveva, quel giorno. Ed il professore assegnò per casa lo studio de «L’invetriata». Ci spiegò che Campana venne rinchiuso in manicomio, dopo aver viaggiato tantissimo. E ci raccontò anche della tumultuosa e passionale storia d’amore con la scrittrice Sibilla Aleramo. Pazzo come fu ritenuto, il poeta consegnò il manoscritto dei suoi componimenti, intitolato «Il più lungo giorno», ai direttori della rivista letteraria «Lacerba», Giovanni Papini e Ardengo Soffici. La speranza era di vederlo pubblicato. Il manoscritto si perse e Campana dovette riscrivere i testi della raccolta a memoria. Alla fine, nel 1914, la pubblicò a sue spese con il titolo di «Canti orfici», vendendo le copie per strada e nei caffè.
Incuriosita dalla vita di questo scrittore e dalla determinazione con cui difendeva la sua penna, aprii il libro subito dopo pranzo per leggere «L’invetriata». E la lessi così tante volte che finii per impararla a memoria. Il componimento rapisce per le sensazioni che suscita.

La sera fumosa d’estate
Dall’alta invetriata mesce chiarori nell’ombra
E mi lascia nel cuore un suggello ardente,
Ma chi ha (sul terrazzo sul fiume si accende una lampada) chi ha
A la Madonnina del Ponte chi è chi è che ha acceso la lampada? – c’è
Nella stanza un odor di putredine: c’è
Nella stanza una piaga rossa languente.
Le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto:
E tremola la sera fatua: è fatua la sera e tremola ma c’è
Nel cuore della sera c’è,
Sempre una piaga rossa languente.


Al di là della critica e delle analisi testuali, resta la sensazione di serenità che trasmette il verso «le stelle sono bottoni di madreperla e la sera si veste di velluto», il mio preferito. La sera è «fatua», leggera, evanescente. E tremola, come fosse una barchetta che danza la melodia del mare. Tremola come può tremolare la luna che si specchia nell’acqua. La «piaga rossa languente» dà l’idea di una ferita aperta, sanguinante. Ma non riesco ad associare il dolore a questa poesia. I critici vi leggono l’angoscia del poeta, io preferisco leggere tra le righe l’inquietudine dell’uomo che cerca ciò che non ha ancora trovato. Un uomo che, però, riesce a farsi abbracciare nel cuore della sera. Sotto il colore madreperlato delle stelle, tra i chiarori nell’ombra, al tramonto di un sole estivo, mentre la lampada si accende. Tutte immagini di luce. Tutte immagini di speranza.

Anna Maria Colonna

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